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Tiburtino III - Vive in un lavatoio tra blatte, scarafaggi e topi

25 settembre 2017 - È arrivato ieri in redazione un messaggio che narra una storia drammatica che ha come scenario la periferia di una metropoli, la nostra. Un racconto che fa riflettere sui problemi sociali di una grande città come Roma e pone un inquietante interrogativo: “ Uno Stato che non è in grado di dare sostegno ai propri cittadini, come può dare assistenza a migliaia di persone che chiedono lo stesso tipo di aiuto? ”. L’accoglienza è un dovere verso tutti e non si possono chiudere gli occhi verso i protagonisti di storie così tristi. Vi riporto il contenuto dell’email del prof. Carmelo senza ulteriori commenti. La storia che riporto qui, fu pubblicata su L’Espresso – Altre lettere, tra i racconti d’agosto (n.34) 2016. Siamo a fine settembre 2017, più di anno è trascorso. Ho incontrato la signora che vive ancora nel sotterraneo adibito a lavatoio. Mi ha riferito, disperata, che il giudice ha rimandato l’udienza ancora una volta, questo giudice rimanda sempre, una volta per un motivo, un’altra volta per un altro. Rimanda. Che cosa può importare al giudice che la signora sia ancora lì, in quella sorta di prigione, senza servizi igienici, con la poca luce e la poca aria mischiata a polvere che proviene da una grata in alto, a livello del marciapiede? Ci passerà ancora l’inverno, lei e la sua gatta. Non ci saranno gli scarafaggi, ma freddo e umidità. Unico sollievo la musica dei liquami che scorrono nelle tubazioni fognarie lungo il soffitto.

La gattara
L’ho incontrata il giorno di ferragosto, sembrava quasi contenta la gattara: “Professò, io non mi arrendo, a novembre c’è l’udienza, io rivoglio la mia casa”. Era ben truccata, rossetto, bella pettinatura. Questa mattina, a pochi giorni di distanza, era distrutta, sembrava persino dimagrita. Forse era dimagrita. Niente rossetto. Capelli in disordine. Mi ha visto arrivare con la macchina, si è fermata nell’atteggiamento di chi ha un appuntamento, fingeva di guardare da un’altra parte, ma era me che aspettava. Ho capito che aspettava me. Ho perso del tempo a sistemare il parasole, a prendere la borsa della spesa nel portabagagli, a chiudere la macchina, lei guardava altrove, guardava altrove ma aspettava me. Voleva raccontarmi. Era stata in Circoscrizione assieme all’avvocato, l’avvocato d’ufficio ovviamente, e aveva appreso che il compagno, prima di morire aveva fatto le cose perbenino, tutto secondo la legge, tutto regolare. E adesso le sue speranze erano quasi svanite. Potrà mai il giudice darle ragione? Povera gattara e povera la sua grossa gatta dal pelo bianco chiazzato di nero.
Viveva tranquilla, la gattara, in un appartamento delle case di edilizia popolare nel quartiere di Tiburtino III, a Roma. Viveva col suo compagno, assegnatario dell’alloggio. Pensava a tener in ordine la casa, a fare la spesa, a preparare da mangiare per sé e per il compagno, e faceva il giro del quartiere per portare cibo e acqua ai gatti. Tranquilla, la gattara di Tiburtino III, sino a che il compagno non si è gravemente ammalato. Quando si è avvicinato il brutto momento, la ex moglie del compagno si è allarmata Vuoi vedere che lui muore e nell’appartamento ci resta la gattara con la sua gatta? E così ha spedito subito la figlia dal padre gravemente malato. Che fai babbo mio? Tu muori e lasci la casa alla tua compagna e alla sua gatta, anziché lasciarla a tua figlia? Poteva il gravemente malato andarsene nell’aldilà col rimorso di non aver intestato la casa alla figlia? Che s’arrangiasse la compagna, s’arrangiassero lei e la sua gatta. E così, il babbo gravemente malato si è recato all’ufficio che amministra le case di edilizia popolare e ha fatto intestare il contratto di locazione alla figliola. Poi un giorno, mentre lui ormai era più di là che di qua, sono arrivati i poliziotti e senza rilasciare uno straccio di verbale, un ordine del giudice alla gattara, e neppure alla sua gatta ovviamente, hanno cacciato sul pianerottolo la gattara e la sua bella bestiola col pelo bianco chiazzato di nero. Non le hanno dato neppure il tempo di raccogliere le sue cose. Dove andare con la sua gatta? Giù, nel sotterraneo, nei locali della cantine, c’è un grande locale adibito a lavatoio. Là si sono sistemate la gattara e la sua bella gatta. Un giorno andai a trovarla. In fondo alle scale del palazzo, c’è una porta di ferro rossa, oltre la porta c’è una scaletta di ferro grigia, scendi e ti trovi tra mura di cemento e tanti tubi che portano gli scarichi dei sanitari nelle fogne, e cominci a vedere cadaverini di blatte rosse sottosopra. Un lungo corridoio tra i cancelletti gialli e rossi delle cantine, e giungi al lavatoio. Povera gattara, ha appeso persino dei quadri alle pareti. Un po’ di luce assieme alla polvere arriva da una piccola grata che dà sul marciapiede. Su uno dei ripiani per lavare, un fornelletto da campeggio. Un cassetta di legno vicino al letto fa da comodino. Nella cassetta ci si è sistemata la gatta. L’acqua c’è. Tanta acqua. Tanti rubinetti che versano nelle grosse vasche. Non ci sono servizi igienici. La gattara fa i bisogni sui giornali, poi mette tutto in una busta di plastica, assieme al terriccio dove fa i suoi bisogni la grossa gatta, e li getta nei cassonetti per la raccolta differenziata. Ma agli inquilini del palazzo la faccenda dei bisogni nei cassonetti non va giù. Agli inquilini del palazzo non va giù neppure che la gattara e la sua bella gatta dal pelo bianco pezzato di nero, vivano nelle cantine. Non sta bene. Non è una bella cosa. Così dicono.
In questa stagione calda le schifose blatte grosse e rosse non stanno a loro agio nelle fogne, escono dai tombini e durante la notte vanno a trovare la gattara e la sua gatta. Forse per questo agli inquilini non va giù che la gattara abiti nel lavatoio, non vogliono che viva in compagnia di topi e scarafaggi. Provano pena. Forse temono che s’ammalino, la gattara e la sua bella bestiola. Forse. Carmelo D.

Antonio Barcella
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